Pochi giorni fa è morto Giuseppe Ghiberti. Una vita intera dedicata a Dio, alla Parola e al mistero della Sindone: si è spento pochi giorni prima del suo 89° compleanno monsignor Giuseppe Ghiberti, sacerdote, teologo e biblista italiano. Considerato uno dei massimi esperti mondiali della Sindone di Torino (su cui ha pubblicato diversi libri), era presidente onorario della Commissione diocesana di Roma per la Sindone e assistente ecclesiastico del Centro internazionale della Sindone. In sua memoria, pubblichiamo la trascrizione di questa conferenza tenuta il 21 maggio 2019 presso la Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale. Siamo grati a Roberto Vitale, membro della Sindone Sicilia, per aver fornito l'articolo per la pubblicazione.
Sindone Vangeli e nuova evangelizzazione
1. Introduzione e approccio metodologico
Ringrazio cordialmente per l’invito rivoltomi da questa alma Facoltà Teologica a parlare sulla Sindone. È un argomento che si è imposto nella mia vita accidentalmente: perché sono di Torino e perché un professore di anni giovanili mi ci ha tirato dentro prima che il Signore lo chiamasse a sé con una rapida malattia. Col passare degli anni e il rinnovarsi per un verso degli inviti a parlare della Sindone, per altro verso degli impegni a interessarmi dei problemi che la riguardano – a cominciare dalla conservazione della Sindone nella sua materialità e poi soprattutto dal problema del rapporto sia con il mondo della scienza sia con quello della pastorale –, si fa sempre più viva la domanda sul senso, l’importanza, di un interessamento tanto impegnativo per questa realtà e il suo significato.
Il particolare del titolo proposto a questo mio intervento “e nuova evangelizzazione” mi pare risentire proprio, almeno per un aspetto, del problema che ho enunciato in modo molto più personale, alle soglie ancora di ogni teoreticità ma pure frutto di una sensibilità suscitata e resa acuta dalla situazione che stiamo vivendo. Con una formulazione molto semplice (spero non semplicistica) riassumerei l’interesse del discorso sindonico che stiamo aprendo nella domanda: quale è il rapporto della Sindone con il tempo presente? Ma intanto si sente la necessità di affrontarne una previa: quale è il rapporto della Sindone con la Sacra Scrittura?
Il centro d’interesse del nostro discorso mi pare avere il suo rimando implicito ma necessario alla grande questione riassunta nell’espressione “verità della Sindone”. Quante domande suscita un’espressione così semplice: quando si realizza quella verità? Quando la si riconosce, quella realtà, per quel che veramente è? Quando la si tratta per quel che è; quando la si propone per quel che è, che vuole essere? Quante cose nella vita vengono tradite a questo riguardo…
Vien da domandarci perché insistere tanto sulla Sindone: è poi solo un segno fra tanti, un mezzo fra molti; eppure, ha una sua unicità, attizza/rende più desta la consapevolezza di quanto è costato ciò che abbiamo ricevuto!
Di fatto chi l’accosta avverte un invito del tutto eccezionale. Non per nulla 21 anni fa il Papa la definiva «specchio del vangelo».
Iniziamo con una precisazione riduttiva, che porta a ridimensionare l’interesse per questa Realtà: essa è uno degli esempi più significativi del relativo di una serie di mezzi/aiuti per la salvezza (può esserci o non esserci – come è accaduto per la consapevolezza di molti santi, che non hanno avuto sentore della sua esistenza), ma anche del libero irromperedi Dio nella storia – di tutti e di ognuno (che si realizza come/quando lui vuole, con coloro che lui vuole – penso ai genitori che lui ha scelto per ognuno di noi: i tuoi non sono i miei, ma per me e per te sono la sua scelta determinante).
La mia stessa storia può essere un esempio significativo di questa enunciazione. Fino ad un certo momento il mio cammino non ha incontrato la Sindone (le mie scelte iniziali per un orientamento di vita non sono state causate dalla consapevolezza della sua esistenza); poi ci sono stati incontri di varia modalità e intensità, e per me questa presenza ha assunto un significato determinante
(anche se non assolutamente condizionante per il mio cammino di fede). Il momento attuale, dell’età avanzata, mi fa pensare che non cessi il tempo dell’interesse per questa realtà, del dialogo con essa, dell’attenzione e ricorso al suo messaggio. Il cammino di questi anni mi ha anzi confermato sulla sua capacità di parlare a gente di tutte le età e anche di mediare messaggi di conforto, di vero e proprio evangelo.
Tutte queste considerazioni avviano la trattazione del problema fondamentale: nell’evangelizzazione, così problematica, oggi è il caso di insistere tanto sull’importanza di questo segno? Occorre individuare alcune condizioni di base e avere chiaro quel che ci si propone e ci si aspetta da un “discorso” sindonico, anche perché una materia che dovrebbe essere libera per definizione risulta invece suscitatrice di passionalità addirittura intolleranti: per qualcuno interessarsi del valore religioso della presenza di questo santo lenzuolo è segno di oscurantismo o addirittura di malafede, per altri non dichiararsi “credenti” (ma di qual fede?) nella Sindone è segno di modernismo più o meno larvato.
Il discorso che stiamo avviando si pone dunque in una precisa prospettiva: essa è consapevole della relatività della presenza della Sindone in rapporto alla salvezza e alla Chiesa, ma contemporaneamente è consapevole dell’importanza che ha questa realtà nella vita e per la fede di molte persone e in questo preciso momento storico. Se è vero che sono molto più numerosi i santi che non hanno conosciuto l’esistenza della Sindone, mi pare di constatare che oggi molte persone vengono aiutate, stimolate per un vario cammino della loro fede passando per questa strada, aiutate dall’incontro con questo segno. Questo convincimento spinge me nel mio interessamento e penso che regga pure l’interessamento di chi guarda per sé questo specchio o eco del vangelo, come di chi ci scopre uno strumento di lavoro pastorale, di evangelizzazione – oggi addirittura più di ieri.
2. Sindone e vangeli
In relazione alla Sindone, un confronto con i Vangeli si impone dunque immediatamente, ma con movimento graduale, in riferimento a due domande:
a) Sindone e Vangeli sono testimoni di vicende analoghe?
b) Le somiglianze inducono a pensare a un rapporto diretto presente all’origine delle due realtà (e cioè che la Sindone sia il lenzuolo funebre usato per la sepoltura di Gesù)?
Quanto alla prima domanda, si può affermare che la Sindone presenta un’immagine, che “racconta” una vicenda di sofferenza (a causa di torture culminanti in una crocifissione , conclusa con la morte per crocifissione del protagonista, seguita dalla sua sepoltura; non è indicato il nome del protagonista).
I Vangeli narrano la vicenda finale della vita di un uomo, come evento di sofferenza (di torture e crocifissione), conclusa dalla morte e sepoltura di quell’uomo, conosciuto come Gesù di Nazaret. La dimostrazione delle due affermazioni non è oggetto di particolari contestazioni. È facile ammettere che i segni di versamenti di sangue sparsi su tutta la superficie corporea dell’Uomo della Sindone hanno origine da una flagellazione, che il versamento di sangue (qualificato come cadaverico) dalla ferita al lato destro del petto sia avvenuto dopo la morte del crocifisso, che le numerose piccole colature di sangue presenti sul capo furono causate dall’impiego di uno strumento di tortura fornito di più punte.
Relativamente alla seconda domanda, il confronto con queste constatazioni fa sorgere il problema del rapporto che corre tra le due realtà: della vicenda che ha dato origine all’immagine sindonica e della vicenda descritta nella narrazione evangelica. Un’immediata impressione di coincidenza tra i due “racconti” si arresta alla fase della tortura ante-mortem, mentre si scontra con alcuni particolari del racconto evangelico della sepoltura. Inizio con un sunto dei dati e del ragionamento conseguente.
Le sofferenze attestate dall’immagine sindonica parlano di un uomo di sesso maschile, che è stato selvaggiamente picchiato al viso e sul corpo, ha subito ferite contundenti sul capo, sul volto, su tutto il corpo; in particolare le ferite alle mani e ai piedi attestano la tortura della crocifissione (con le manifestazioni della caduta del sangue lungo le braccia); la natura del sangue che fuoriesce dalla ferita al fianco destro che ha caratteri di condizione non più vitale ma postcadaverica attesta la morte ormai avvenuta del crocifisso; la posizione ordinata del cadavere all’interno del lenzuolo è frutto di un procedimento di sepoltura dignitosa. L’assenza di ogni segno di degrado del cadavere e del telo stesso (con assenza totale di segni di anche solo incipiente putrefazione) è segnale di una condizione postmortem che deve essere riconosciuta come eccezionale.
L’eccezionalità, a dir vero, ha inizio quando il cadavere di Gesù vien fatto oggetto di un trattamento del tutto inusuale. Ricompaiono amici coraggiosi e ottengono da Pilato il corpo del crocifisso: Giuseppe di Arimatea, prima ignoto, e Nicodemo, che nel racconto giovanneo porta a termine un cammino dalla traiettoria del tutto positiva, che partiva da una simpatia falsamente motivata per giungere ora – con Giuseppe – all’accettazione di Gesù, privo di vita, nella deposizione dalla croce e divenendo quasi, nella prospettiva giovannea, protagonista principale. L’intervento di questi “amici” culmina nella preparazione ed effettuazione della sepoltura (riprendendo alcuni elementi presenti già nel racconto di Lazzaro, in Gv 11), per la quale usano determinati panni sepolcrali. Iniziano intanto i tre giorni della profezia di Gesù (Gv 2,19) riguardante il tempio del suo corpo.
3. La discussion esegetica
In anni vicini all’immediato dopoguerra in campo esegetico si discusse vivacemente sulla compatibilità del racconto evangelico con la realtà sindonica (il ricordo va, in questo momento, all’amico benemerito Joseph Blinzler, che non riusciva a far pace con la dissonanza di sindòne di othónia nei Sinottici e in Giovanni).
Normalmente si riteneva che la breve narrazione sinottica delle vicende postmortemdel cadavere di Gesù fosse compatibile con il dato sindonico: la sindònpuò indicare una realtà come la “Sindone” (anche se non sono escluse altre possibilità), e se lo spazio del mistero rimane grande, non giunge/comporta però [al]l’incompatibilità.
La difficoltà si incontra nel racconto giovanneo, che non parla più di sindòn ma di othónia al plurale (aggravato dalla forma diminutiva: non othónema othónion) e di un soudárion che aveva un rapporto con il volto. Ma gli othónia nella koiné neotestamentaria (con esempi anticipatori nella LXX) non sono necessariamente “bende” (secondo la vecchia traduzione CEI), bensì “teli”, molto più generici (nuova traduzione CEI); il soudárion può avere un rapporto col volto in funzione di mentoniera (per la sepoltura di Gesù si dice che il sudario era stato sul suo capo, che suggerisce più facilmente la mentoniera attorno al viso). Le nostre traduzioni riportano “bende” o “teli” e “sudario”. Perché othónia è forma diminutiva (di othónē), si spiega la scelta di tradurre con “bende”, di solito strette e lunghe (scelta presente anche in altre lingue, come nel tedesco “Binden” o nel francese “bandelettes”; mentre l’inglese con “linen cloths” della Revised Standard Version evita di prendere posizione), ma perché il diminutivo nello stadio evolutivo del lessico della koiné neotestamentaria ha perso la sua pregnanza formale, la nuova traduzione CEI” sceglie il più generico “teli”, che non dà suggerimenti specifici sul formato piccolo o grande, largo o stretto, dell’oggetto. Io userò anche “panni”.
Ulteriori singolarità del quarto Vangelo sono l’esplicito richiamo agli usi della sepoltura giudaica e soprattutto il richiamo alla presenza dei panni funebri in una delle scene al sepolcro vuoto. Per i sinottici la notizia della “Sindone” si arresta alla sepoltura, con la sola eccezione di Lc24,12, frutto probabilmente non di tradizione lucana bensì di assorbimento di tradizione giovannea.
Il richiamo agli usi della sepoltura giudaica è sovente visto come testimonianza della precisione della descrizione offerta da Giovanni dei particolari della sepoltura “presso i Giudei: si sarebbe dunque portati a dire che secondo Giovanni la sua descrizione della sepoltura di Gesù coincide con tutto e solo quello che egli annota in questo momento. Si deve però immediatamente notare che in questa prima descrizione, in Gv 19 è assente il richiamo al sudario, che sarà ricordato solo dopo, nel capitolo 20. Dunque, non è presente un’intenzione di completezza; e questo ci permette di ipotizzare che forse tale intenzione non c’è neppure nella descrizione del capitolo 20: Giovanni narra ciò che è avvenuto, non si preoccupa di riportare tutto quello che è avvenuto. Più ancora, non si preoccupa di riportare le modalità della sepoltura, soprattutto non esaustivamente.
Molto più probabilmente suo interesse è attestare che Gesù crocifisso ha avuto una vera sepoltura, con tutta la dignità possibile in quella circostanza. Il suo cadavere è stato onorato, e dunque il disonore della morte del malfattore si è concluso al momento della deposizione del cadavere dalla croce o addirittura primache il cadavere venisse deposto dalla croce, quando Gesù rese o trasmise lo Spirito.
Sarà pertanto poco proficuo, probabilmente, il ricorso a quell’affermazione per dire che proprio quei particolari corrispondono (addirittura, come a volte si afferma, in modo preciso ed esclusivo) alle modalità della sepoltura nel mondo giudaico di quell’epoca. Il discorso sull’intenzionalità storiografica è sempre tanto delicato: spesso la si nega – anche radicalmente – dove in realtà l’intenzione comunicativa è presente; altre volte invece la si afferma dove l’impegno dell’informazione è assai più tenue e riveste una funzione del tutto marginale. Ma proprio per questo è tanto più notevole, nel nostro caso, che gli othóniasiano ricordati, a riprova del fatto che il particolare sta a cuore all’evangelista.
3.1 Il mistero del sabato
La fine del capitolo 19 di Giovanni ha l’asciuttezza di un protocollo: “Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù” . La ripresa del racconto in Gv 20,1 ha già superato il salto di due notti e si affaccia sul mattino del giorno successivo, che sarà poi sempre chiamato “il terzo giorno”. Nessun cenno a quanto era accaduto in quel lasso di tempo. Che cosa si può raccontare di un morto? Si è consumata l’incapacità totale di ogni relazione con le persone e il mondo esterno e l’ultimo atto di vita l’avevano posto gli altri, “deponendolo” , con l’intenzione di non tornare mai più a riprenderlo (salva l’intenzione della Maddalena, come un vaneggiamento). Da allora è trascorso il giorno più lungo, nella sua mutezza. L’evangelista riprende il racconto, quando il sabato è già passato.
Eppure, per la storia dell’umanità, quel sabato avrà un significato e un’importanza indescrivibile, anche se chi vi si affaccia non smette mai di porsi la domanda del senso. Colui in cui «era la vita» ora è totalmente alla mercé degli altri, nell’assoluta incapacità di relazione, di decisione, di interazione. È stato detto che, nascendo, il Verbo aveva chiesto alla terra l’unica cosa di cui non può fare a meno anche l’uomo più povero, una mamma; ora ha perso anche la possibilità di ricorrere ad essa. Ed è ancora la partecipazione più totale alla condizione umana, da parte di colui che, pur essendo più che uomo, è totalmente uomo.
La condizione umana condivisa nella situazione di cadavere incomincia a godere di uno status di eccezionalità: il condannato a morte ignominiosa perché “re dei giudei” (ma il Pilato che aveva ceduto ai capi dei Giudei, condannando per quel titolo Gesù, in realtà aveva impegnato la sua autorità nel dichiarare autenticamente col cartiglio sulla croce la natura di quel condannato) riceve l’onore di una sepoltura eccezionale, anche se preparata necessariamente nella celerità della Parasceve. Ma è pur sempre sepoltura, buio e silenzio.
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